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sabato, 25 agosto 2018

C’è un ragazzo ad Altavilla Silentina, paese cerniera fra gli Alburni e il mare del Cilento, che tanto ragazzo più non è. Ha occhi piccoli e azzurrissimi che si muovono veloci alla ricerca dell’ispirazione, poi si fermano e fissano l’infinito maestoso che dal suo terrazzo si perde fino a Capri. È Alfonso Mangone, eclettico pittore un tempo vagabondo, genio di casa nostra e talento nazionale.

Non poteva scegliere casa migliore. Lasciando il borgo in direzione mare la trovi lì sulla sinistra, a ridosso della strada, quasi in bilico su un terrapieno a riproduzione delle case sbilenche delle sue tele. L’insignificanza del retro però è traditrice. Costeggiando il perimetro si scopre il terrazzo dell’infinito. Alle spalle l’ingresso al suo studio e al suo mondo.

I capelli lunghi e scompigliati, la giacca di almeno una taglia più grande — troppo pesante per una calda giornata primaverile — sembrano urlare il  disinteresse per ogni estetismo personale. Ci accoglie con la semplicità di uomo di campagna lui che ha visto più metropoli di un cosmopolita. Educato, cordiale, vero, genuino, indifferente alla popolarità. Con fare gentile ci fa entrare e si dimostra da subito padrone degli spazi. L’allestimento della galleria permanente è opera sua: due ambienti di diversa metratura con pareti bianche e faretti argentati a illuminare le città dei suoi quadri. La casualità sembra essere il fattore dominante nella selezione dei lavori esposti ma con la singolarità è l’iperproduttività che sorprende. Impensabile risalire al numero esatto dei dipinti, neanche lui li ricorda tutti. Se ne contano almeno venti fruibili, altri sono ammassati in un ripostiglio in partenza per chi sa dove, altri al piano superiore e altri ancora venduti, prestati, regalati, spediti in gallerie lontane.

Gira, illustra, spiega. Per ogni discorso accennato rispolvera una tela facendola riemergere da un angolo nascosto dello studio per renderci partecipi dei ricordi della sua memoria. Ogni suolo calpestato è rappresentato. Amsterdam e Venezia fra tutti, poi Roma, Milano e la nostra Paestum, in un vortice di colori e di chiaro scuri nato dal gesto violento e ininterrotto della sua mano. Elementi distintivi di una nelle raffigurazioni delle altre. Passato e presente. Nord e Sud. Un Sud da cui si è allontanato giovanissimo ma che ritorna in quelle immagini di luoghi urbani dove la velocità del mondo contemporaneo è osservata da un cielo stellato che sa tanto di mediterraneo. Le figure e i simboli, rinvenibili ovunque, riportano alla cultura millenaria del territorio d’origine. L’artista, dunque, è certamente proiettato in una dimensione convulsa che è quella  attuale rimanendo però sempre ben ancorato alle radici mitiche della Città di Poseidone.

È stato ovunque nel lungo periodo di nomadismo. Berlino, Rotterdam, Parigi, Londra, vissute negli anni in cui erano crogiuoli di tendenze musicali e dove i più grandi maestri del rock, del punk, del “nuovo” in genere erano di casa.  E lui li ha voluti rendere immortali con cartelloni pubblicitari e insegne che fanno da sfondo a molti scorci e li fanno rivivere come se dovessero esibirsi a breve. “Non per ruffianeria” puntualizza “ma per rendere un tributo a chi ha dato tanto”. È grato alla musica che lo ha accompagnato nel suo percorso di vita. Chitarre, sassofoni, strumenti vari compaiono qua e là anche dove sembrano di troppo.

Un percorso di vita intenso e articolato — quello di Mangone — che lo ha portato in contatto con realtà, generi, persone e artisti disparati e lo ha reso quello che è divenuto. Ricostruirlo attraverso l’opera è impossibile perché quelle immagini di luoghi urbani non sono ad indicare le tappe del suo cammino, non sono illustrazioni, non sono cartoline, ma sono attimi della sua vita, sono momenti, sono emozioni, sono pezzi di strade catturati nell’istante in cui l’occhio e l’anima dell’artista hanno voluto fermare la frenesia o l’alone magico che li circondava.

Il pittore ci invita a oltrepassare la cornice, a farci trasportare nelle mille città che lo hanno ospitato, a vedere quegli angoli con i suoi occhi nel tempo in cui hanno smosso il suo estro, a godere del silenzio che incredibilmente fuoriesce dalle immagini di caos, a farci bagnare dall’acqua che torna come elemento, forse purificatorio, di una vita di eccessi. E mi fa sorridere che ad un tratto, guardando l’infinito che dal suo terrazzo di perde fino a Capri,  fissando un punto fra i sentieri, malinconico si apre: “Mi ricordo quando da piccolo mia nonna mi mandava a prendere l’acqua”. Eccola di nuovo l’acqua. Non deve solo purificarlo allora. Eccola l’acqua che bagnando Amsterdam e le altre città, metropoli e campagne, angoli e piazze, in un percorso all’indietro lo riporta che lui lo voglia o no, ad Altavilla e alla sua infanzia.

Tiziana Rubano

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